di Silvia Guerrini (foto copertina di Giorgia Monti)

Questa mattina alle ore 11:00 l’Auditorium della Laga di Amatrice ha ospitato la presentazione del libro Vita mia di Dacia Maraini, memoria autobiografica sull’esperienza dei campi di prigionia giapponesi, vissuta dall’autrice e dalla sua famiglia durante la Seconda guerra mondiale.

L’iniziativa, promossa dal Comune di Amatrice e dall’associazione “Teatrando e…”, ha coinvolto anche l’Istituto Omnicomprensivo e l’Istituto Alberghiero di Amatrice, con la presenza di circa 150 studenti, dalle scuole elementari fino alle superiori. Sono stati proprio loro gli interlocutori privilegiati della scrittrice, che ha risposto alle loro curiosità e ha discusso con loro riguardo temi di attualità, oltre a mostrare interesse a sua volta per le loro aspettative sul futuro.

Il primo cittadino e la dirigente scolastica hanno espresso gratitudine per la presenza di un’autrice tanto rilevante nel panorama culturale italiano e internazionale, e Paola Cialfi (“Teatrando e…”) ha esplicitato il profondo legame di Dacia Maraini con il teatro. La scrittrice, infatti, è nota soprattutto per i suoi romanzi, ma la sperimentazione condotta, insieme ad Alberto Moravia, con la Compagnia del Porcospino, ha prodotto testi e spettacoli di grande interesse non solo culturale, ma anche sociale. Il suo teatro si è fatto portavoce di istanze femministe che hanno riecheggiato anche nelle parole che ha rivolto, in questa occasione, alle giovani studentesse, ricordando loro i fondamentali diritti ottenuti dalle donne soltanto pochi decenni fa, e invitandole a riflettere su quanto siano diverse e proibitive le condizioni delle donne in Paesi apparentemente estranei rispetto ai nostri sistemi democratici, ma pur sempre parte dello stesso mondo globalizzato.

In particolare, la Maraini, si è soffermata sull’oppressione subìta dalle donne afghane e iraniane, private persino del diritto alla sanità o torturate perché scelgono di non indossare il velo. Se molte di loro continuano a protestare, rischiando anche la vita, non è per rifiuto della cultura cui appartengono, bensì per un universale anelito all’affermazione di sé e alla libertà di disporre della propria vita. Il sistema democratico è imperfetto, e presuppone, per la sua stessa natura, difficoltà di mediazione; tuttavia esso rappresenta, secondo la Maraini, l’unico assetto in cui questo bisogno umano può realizzarsi.

Continuare a parlare di pagine così fosche della storia recente è, perciò, necessario per avvertire le giovani generazioni dei pericoli che le attuali derive antidemocratiche e conflittuali stanno portando con sé.

Libertà, insomma, è stata la parola chiave del discorso dell’autrice; la stessa libertà di cui è stata privata, insieme alla sua famiglia, nei campi di concentramento per “traditori della patria”: i genitori di Dacia e delle sue due sorelle, infatti, avevano rifiutato di aderire alla Repubblica di Salò. La prigionia, iniziata nel 1943, quando la Maraini aveva solo sette anni, è stata rievocata sia nei suoi aspetti più terribili -come la fame e il sadismo delle guardie nipponiche- ma anche nelle forme di speranza e di solidarietà che Dacia e i suoi famigliari hanno saputo coltivare, condividendo quel poco che c’era. Punto di partenza per le memorie dell’autrice è stato un taccuino compilato da sua madre durante quei mesi difficili, e scampato alla confisca dei carcerieri perché tenuto nascosto nell’orsacchiotto da cui la sorellina Yuki non si separava mai: perfino in un clima tanto ostile all’espressione della propria umanità, e sotto le bombe e le minacce dei soldati giapponesi, è stato possibile il racconto.

Oggi le sfide sono cambiate, e i social hanno reso la parola sempre più accessibile, ma anche per questo meno autorevole, e spesso non verificata; anche la famiglia, irrimediabilmente lontana dal mondo contadino di un tempo, deve essere ripensata secondo le logiche economiche attuali, se non si vuole assistere alla sua definitiva disgregazione. La responsabilità sociale dell’intellettuale resta, perciò, più necessaria che mai.

Dacia Maraini, che pure si è fatta portavoce di idee politiche in tutta la sua opera, non crede in una scrittura didascalica, in cui l’autore si comporti da ideologo: la letteratura, in quanto forma d’arte, è anche necessità di esporre il proprio mondo interiore, e presuppone una trasfigurazione del messaggio che si vuole trasmettere. Più che di messaggio, per citare direttamente le conclusioni del suo intervento, si dovrebbe parlare di contagio: il lettore deve essere spinto a porsi le stesse domande che hanno animato la creazione dell’opera, e giungere alle proprie personali conclusioni. Come i personaggi dei suoi romanzi hanno bussato alla porta dell’autrice finché non hanno trovato posto tra le pagine, anche lei bussa alla porta dei propri lettori, per trovare posto nelle loro riflessioni sull’oggi.

La diretta integrale dell’incontro a cura del Comune di Amatrice.